CENSURsArs(cov2) | il foto-racconto

“Ovviamente il turismo è stato bloccato dalle decisioni del nostro Governo, in modo particolare dal nostro premier, che ha bloccato praticamente tutti i ristoranti e tutti gli hotel. Come sapete ci aspetta un Natale molto magro, perché stanno pensando addirittura di restringere ulteriormente, che questo significa andare a bloccare anche un retail che si stava rialzando per la seconda volta da una crisi e lo stanno mettendo nuovamente in ginocchio. Io penso che le persone sono un po’ stanche di questa situazione e vorrebbero alla fine venirne fuori, anche se qualcuno morirà pazienza, ma così secondo me diventa una situazione impossibile per tutti”. (Domenico Guzzini, presidente Confindustria Macerata, durante un convegno on-line dedicato alla moda e al Made in Italy, trasmesso in diretta streaming sui canali social e youtube di Confindustria lunedì 14 dicembre 2020 dalle ore 17.00)

“Quando è cominciata la pandemia e mancavano i dispositivi di protezione individuale, per noi la vita delle persone veniva comunque prima della nostra sicurezza. Anche adesso, che continuano a mancare tante cose e che hai paura perché vedi tanti tuoi colleghi che si ammalano, ho scelto di andare ad assistere a domicilio i malati di Covid quando stacco dal turno in ospedale, perché se sei un’infermiera lo sei sempre e non solo durante il tuo orario prestabilito di lavoro; perché adesso servono maggiori sacrifici e non importa se non sono remunerati o riconosciuti, perché la vita delle persone vale di più. Un grazie di un paziente ti fa venire fuori il sole. Capisco che è difficile prendere decisioni politiche ed economiche e che io sono fortunata perché ho un lavoro mentre altri non ce l’hanno, ma alla gente chiederei solo un po’ di comprensione e un po’ di attenzione in più per gli altri”. (xxxx xxxx, infermiera del reparto di xxxx dell’ospedale di xxxx, membro della task-force anticovid di medici e sanitari prestati al volontariato)

“Anche se umanamente comprendo l’idea del sacrificio sotteso alla parola rinuncia, come medico e cittadino mi ferisce che si perseveri in un dibattito che oppone l’interesse economico alla salute pubblica”.

Comincia così la telefonata con la dottoressa xxxx xxxx del pronto soccorso di xxxx, uno dei medici che ha aderito alla chiamata del dottor xxxx xxxx che nel mese di novembre ha messo in piedi una task-force di sanitari ospedalieri disposti a portare volontariamente la propria esperienza in campo aperto contro la schiacciante avanzata del virus.

I dati registrati fra il 23 novembre e il 6 dicembre dicono che il Friuli Venezia Giulia è la seconda regione in Italia con il più elevato tasso di mortalità da Covid.

“Preso atto di ciò e considerate la morfologia del territorio xxxx, la distribuzione e la demografia della popolazione, avendo sperimentato che la tempestività del nostro intervento era determinante nel decorso e nell’esito della malattia, abbiamo capito che per salvare vite umane ed evitare al contempo il collasso della struttura sanitaria, afflitta da un’annosa carenza di risorse, era necessario dare una risposta nuova e coraggiosa alla situazione” mi spiega il dottor xxxx xxxx, che ancora mi dice: “Ad oggi sono una sessantina i pazienti, identificati dalle USCA ingaggiate dai medici di base, che nell’arco dell’ultimo mese non hanno avuto bisogno di essere ospedalizzati grazie alle nostre cure domiciliari. Una chiara dimostrazione di come dovrebbe essere concepita la presa in carico del paziente e del valore che avrebbe la vera medicina territoriale, per favorire la quale nulla si è fatto e nulla si sta facendo”.

Per altre vie vengo a sapere che il mancato riconoscimento formale del lavoro di questi medici e sanitari “prestati” nel tempo libero al “volontariato”, cosa che li espone a non pochi rischi anche di natura legale, non è la conseguenza di scelte improvvisate o inconsulti slanci di eroismo dettati dall’emergenza, perché già nello scorso mese di agosto, e in previsione di quanto sarebbe accaduto nei mesi a venire, gli stessi medici e sanitari avevano già presentato il progetto della task-force e in seguito ne avevano sollecitato più volte, ma invano, la necessità.

“Come medici dobbiamo garantire la salute delle persone anche quando il resto del sistema non partecipa e non risponde”, mi dice il dottor xxxx xxxx chiamando in causa il concetto scientifico di riserva funzionale, cioè la capacità di un organo di adempiere, in condizioni di necessità, a funzioni che non gli sono proprie. Ma gli rispondo che la società non è solo biologia, è cultura. La task-force è il cuore pulsante e resiliente, ancorché non inesauribile e sofferente, di quell’organismo sociale incancrenito dal cinico fatalismo neoliberista, quello del culto del darwinismo economico e sociale, l’organo sano emancipatosi dalla gabbia d’acciaio della burocrazia asservita alle esigenze della governance ignava dei principi del buon governo; è l’Illuminismo contrapposto all’inaccettabile Machiavellismo di certa politica allergica all’autocritica; è la scialuppa di salvataggio anche per chi rinnega Darwin quando poi le cose vanno male.

xxxx xxxx è stata la prima infermiera a rispondere senza indugio all’appello del dottor xxxx xxxx. Nel raccontarmelo al telefono non fa altro che ripetermi “il mio primario, il mio primario” con una dedizione che trasuda affetto, stima, ammirazione, e mi commuove. Per analogia negativa il pensiero mi cade sull’ospedale civile di xxxx, afflitto da una grave carenza di primari, quelle figure che hanno il compito di svolgere non solo attività medica e chirurgica, di studio, didattica e ricerca, di programmazione e direzione dei reparti affidati loro, che sono i titolari di specifiche posizioni di garanzia nei confronti di tutti i pazienti, ma che dovrebbero essere le figure di riferimento per tutto il personale sanitario, come dimostra il fortunato esempio del dottor xxxx xxxx. Quando una sera proprio lui chiama anche me, per chiedermi se me la sentissi di raccogliere una testimonianza fotografica di quell’esperienza storica, probabilmente unica, che la sua equipe di sanitari prestati al volontariato stava portando avanti, io stesso non oppongo alcuna esitazione: sì.

Ci troviamo per la prima volta nel suo studio alle 8.30 di un sabato mattina, al xxxx piano dell’ospedale xxxx. Non c’è tempo per convenevoli e spiegazioni, quello che dovrebbe essere il suo giorno libero, un lusso che non si concede da molte settimane, si prefigura invece come una lunghissima giornata di una guerra al virus combattuta casa per casa. Parleremo strada facendo. Il dottor xxxx xxxx mi fa indossare dapprima una normale tuta verde a maniche corte, di quelle che i medici usano nei reparti degli ospedali. Poi scendiamo e ci dirigiamo verso la cosiddetta zona blu, l’anticamera dell’area in cui alcuni pazienti-covid attendono una sistemazione adeguata, a volte per diversi giorni, stante la carenza di posti letto.

Nella zona blu si effettua la vestizione vera e propria: per prima cosa si indossa sopra alla tuta verde la tuta bianca anticovid, il cui cappuccio viene sollevato solamente dopo aver indossato la mascherina, in genere una ffp2, e una cuffia per i capelli fissata alla fronte con del nastro adesivo di carta. La cerniera della tuta viene sollevata sino all’altezza del collo e quindi sigillata a sua volta da una striscia di nastro adesivo incorporata. Si infila quindi il primo paio di guanti sterili, il cui polso andrà sormontato dalla manica della tuta che poi verrà agganciata al pollice di un secondo paio di guanti, che invece sormonteranno le maniche della tuta per evitare che polsi e avambracci possano rimanere esposti durante i movimenti. Quindi si indossano i calzari e, infine, dopo averne disinfettato lo schermo trasparente, la visiera anti-droplets con ancoraggio elastico al capo. Infine ci si controlla a vicenda per appurare che il processo di vestizione sia stato compiuto correttamente. Completata la vestizione si entra nell’area contaminata vera e propria. Da quel momento, come si dice in gergo “si è sporchi”.

L’atmosfera è surreale, complice l’alienazione indotta dallo scafandro che ti inghiotte e che farebbe perdere a chiunque la normale cognizione del tempo e dello spazio. Per circa sette, otto ore, tanto durerà la missione, bisognerà mantenere sempre alta guardia per spegnere qualunque impulso o riflesso elementare. Le mani guantate non dovranno mai entrare in contatto, per nessuna ragione, con la visiera che ti protegge il viso. Se ti sarai “vestito male”, se cioè ti accorgerai di qualcosa che ti darà fastidio come un angolo del cappuccio cascante sulla palpebra destra, beh, a quel punto sarai fregato, il fastidio te lo terrai e basta. Scoprirai che la visiera non reggerà agli scontri fra il tuo respiro forzato, innaturale, e gli sbalzi termici ai quali sarà sottoposta. Mentre la sua superficie si tramuterà in coltri di condensa accecante, la cui dissolvenza varierà solamente per benevola intercessione di imprevedibili agenti esterni, e non potrai stropicciarti gli occhi quando stremati insceneranno una dolente protesta, dall’altra parte l’ancoraggio elastico si trasformerà ben presto in uno schiaccia-testa medioevale avviluppato alle tempie pulsanti per i continui cambi di pressione. Le mani guantate non dovranno mai entrare in contatto, men che meno e per nessun motivo, con la mascherina ultrafiltrante, casomai dovesse venirti la tentazione di sollevarla un istante per tirare fiato o per allentare la morsa degli elastici che inizieranno a tagliarti le orecchie (la piaga dietro le orecchie mi resterà per due giorni). E mentre salirai e scenderai dall’auto, o affonderai i calzari nella neve per raggiungere gli usci delle abitazioni da visitare, riconoscibili dai depositi di bombole d’ossigeno esauste in attesa di essere ritirate e rigenerate a loro volta, mentre ne salirai le scale, con le spalle ingombre di quei generosi quaranta chili di attrezzature mediche, mentre parlerai coi pazienti, se avrai la disgrazia di indossare una ffp2 l’affanno sarà la tua unica dimensione atmosferica possibile. Prurito, fame, sete e pipì non sono neppure contemplati. La tuta protettiva, rigorosamente non traspirante, come certe tutine snellenti, è l’abito inadatto per ogni stagione. Il conforto iniziale dei caminetti accesi che ti accoglieranno nelle case ingrosserà fiumi di sudore fra le tue scapole che appena fuori dalla porta muteranno rapidamente in epidermiche stalattiti di ghiaccio pendenti lungo la schiena. Lo scafandro è un’esperienza che tutti dovrebbero provare. Se non l’hai fatta, bene che vada puoi immaginare, ma di sicuro non puoi capire.

Saliamo a bordo della Panda bianca modello base dell’azienda sanitaria, che a giudicare dagli scarti di aderenza sulla fanghiglia ghiacciata non monta neppure gomme invernali, e partiamo, ma solo dopo aver caricato i due zaini rossi: il primo pesa un quintale, contiene l’ecografo per la diagnosi della polmonite interstiziale. Il dottor xxxx xxxx me lo mostrerà più volte in funzione, indicandomi certi spettri biancastri, galleggianti nel monitor al contatto delle sonde gelatinose coi toraci dei pazienti, striati da righe più scure dai nomi impronunciabili che sarebbero le tracce inconfutabili delle infezioni in atto, come mi spiegherà di volta in volta volendo sincerarsi che io abbia visto e capito (per non deluderlo farò sempre di sì con la testa). Il contenuto del secondo zaino, invece, è misterioso per me quanto gli scaffali sovraccarichi del Bricofer. Ma alla fine si utilizzeranno soltanto strumenti che già conosco: un termometro, un misuratore di pressione, un saturimetro, un laccio emostatico, garze e cerotti, cannule e provette per i prelievi del sangue, i cui campioni serviranno la duplice causa della diagnostica e della ricerca, perché mentre si fa fronte alla fase acuta della nuova malattia, si tenta al contempo di capirne i meccanismi che ne determinano esiti e decorsi tanto diversi quanto imprevedibili, compresi quelli a lungo termine ancora sconosciuti. Carichiamo in auto anche delle scatole di cartone che contengono i kit dell’unica terapia possibile da somministrare ai pazienti infetti: pastiglie di cortisone, pastiglie di antibiotico, fiale di eparina. Riepilogando: un ecografo, un saturimetro, cortisone, eparina, ossigeno, “sono le uniche armi che abbiamo, tanto qui quanto in ospedale, fatta salva la differente capacità di emissione delle bombole di ossigeno (30 lt domiciliare, 50 lt ospedaliero), non c’è altro” mi dice il dottor xxxx xxxx. Sta mentendo o meglio, sta omettendo, vittima inconsapevole di una sua peculiare umiltà. E lo intuisco già dalla prima visita.

Fuori dalla prima casa ci accoglie un comitato di nani da giardino. Con noi c’è anche xxxx xxxx, l’infermiera. xxxx xxxx, la badante, ci apre la porta e ci fa accomodare. Riconosco l’accento proveniente da dietro la sua mascherina e azzardo un “multumesc” nel mio rumeno sgangherato, incassando la sua rapida sorpresa velata di pudica nostalgia, prontamente rimpiazzata dalle sapienti premure per il suo anziano assistito. La osservo prendersene cura, xxxx xxxx è stato colpito più duramente dal virus, mentre xxxx xxxx ci dice che per fortuna lei sta in piedi e quindi può accudirlo. Ma il pensiero vola libero, si sa, e a me torna alla mente l’Istituto psichiatrico Socola di Iasi, in Romania, dove ogni anno vengono ricoverate circa duecento donne ritornate in patria depresse, schizofreniche, ansiose, allucinate, ossessionate, spesso aspiranti suicide, alla cui malattia da stress sviluppata in anni di assistenza domiciliare agli anziani nostrani è stato dato il nome di “Sindrome Italia”. La spio con tenerezza e riconoscenza, mentre prepara xxxx xxxx per l’ecografia.

Il dottor xxxx xxxx lo conoscono un po’ tutti, come scoprirò casa dopo casa, visita dopo visita. Lo chiamano alternativamente il dottor xxxx o il dottor xxxx, a seconda che l’accento gli scappi sull’affetto o sull’ammirazione. Ma per xxxx xxxx è molto più familiarmente “il fi di xxxx”, che in friulano vuol dire il figlio di xxxx, come si usa ancora presentarsi agli anziani fra i borghi senza tempo di queste terre, il cui silenzio primordiale è squarciato solamente dalle urla del dottor xxxx xxxx “Il fi di xxxx! .. Il fi di xxxx!..” che non perde la speranza di farsi riconoscere, in barba all’anonima bardatura, facendo breccia in quell’udito di cui xxxx xxxx conserva poco più che un vago ricordo. Con altrettanta caparbietà (e con non meno urla) il dottor xxxx xxxx riesce a sollevare di una spanna xxxx xxxx dalla nuvola del suo torpore, facendo leva sulle xxxx (xxxx xxxx ha coltivato xxxx per tutta la vita) e sull’ormai rarissimo xxxx, tipiche xxxx, originarie della xxxx, realizzate a mano con xxxx e xxxx per le xxxx e xxxx, che xxxx xxxx indossa.

Capirò meglio più tardi il significato medico di quell’amorevole siparietto che lì per lì mi fa sorridere: il Covid, compromettendo l’ossigenazione cerebrale, può causare negli anziani gravi sintomi e danni a livello neurologico e cerebrale, che spaziano dalla semplice confusione mentale, a veri e propri stati di alterazione e delirium, finanche al coma. E’ dunque importante prestare molta attenzione a questi sintomi, prevenirli ed affrontarli non solo attraverso un’ossigenazione e stimoli adeguati, ma anche evitando il più possibile situazioni di disorientamento e isolamento. Il dottor xxxx xxxx, che durante la prima ondata della pandemia è stato uno dei quattro pilastri della diga che ha scongiurato una strage nella xxxx di xxxx, lo sa bene mentre cala l’asso della semeiotica fisica, affinata in anni e anni di missioni in xxxx “Se un paziente non lo puoi auscultare o non ci puoi interagire più di tanto devi saperlo osservare”. Mi fanno eco nella testa le parole che avevo sentito da don Dante, medico e direttore del Cuamm: “In Africa smetti di pensare a quello che non hai e impari a curare le persone con quello che hai”. Ma c’è un’arma ancor più potente contro le malattie che il dottor xxxx xxxx omette di dirmi all’inizio, un’arma che scopro un po’ alla volta perché più delle altre mi colpisce nel loro, suo e di xxxx xxxx, approccio di cura. E’ un linguaggio fatto di comprensione, vicinanza, umanità, fatto di piccoli gesti che mi colgono di sorpresa, carezze che non sono capace di fotografare, che mi sono disabituato a vedere, quel genere di empatia quasi scomparso dalle nostre società delle infinite esclusioni e delle infinite solitudini. Delle parole circolate nel nostro giro di visite dai malati, che però in casa loro conservano appieno lo status di persone, quelle che esprimono meglio di tutte la potenza di questa medicina escono dalla bocca di un altro paziente, xxxx xxxx: “Dottore, spero che avrò la possibilità di dimostrarle la mia riconoscenza”. Riconoscenza. “Non serve, xxxx xxxx” risponde il dottor xxxx xxxx.

Ci spostiamo in un’altra casa. da xxxx xxxx. Arrivati lì vedo il dottor xxxx xxxx che, come me, si entusiasma alla vista del gatto di casa. xxxx xxxx, dal suo letto, ci dice che il gatto non la abbandona neanche un attimo. Io allora le racconto dei miei e, per stemperare un po’ la tensione, chiedo al dottor xxxx xxxx se in casa ha dei micetti anche lui, ma è già troppo preso dal suo lavoro per rispondermi. Soltanto alla sera mi spedirà la foto più bella che manca a questa raccolta: un selfie di lui finalmente seduto a tavola per la cena insieme al suo gatto, quest’ultimo accomodato nella sedia accanto e, com’è tipico, buffamente indignato per l’assenza del suo piatto a quella mensa.

Comunque, xxxx xxxx per fortuna sta meglio, tanto che dal suo letto sente il bisogno di fare una confessione: “Dottore, ho mangiato un Mon Chéri”, dice mentre con la mano sinistra tenta di occultarne invano l’intera scatola vuota. Un peccato non di poco conto, considerato che l’accumulo di cortisone nel sangue potrebbe slatentizzare in certi soggetti predisposti una qualche forma di diabete.

Il dottor xxxx xxxx chiede anche a lei, come ad ognuno dei suoi pazienti, di continuare a mandargli due WhatsApp al giorno con i valori di battito, febbre e saturazione.

Risaliamo in Panda che sono quasi le due del pomeriggio. Siamo scesi nelle tute quattro ore fa e continuiamo a bruciare chilometri coi finestrini abbassati per far girare l’aria dentro l’abitacolo, mentre fuori ci salutano folle di pinguini e bianchi cartelli di benvenuto a xxxx, xxxx, xxxx, xxxx, xxxx, xxxx, xxxx, xxxx. Ironizzo per un momento sulla guida soporifera del conducente, ma il dottor xxxx xxxx mi spiega che quando escono in missione come volontari non sono nemmeno assicurati in caso di incidente stradale, e la voglia di ironizzare mi scema di botto. Fino a che punto è lecito credere e sperare che il buon cuore di qualcuno sopperisca alle carenza e alle negligenze di un sistema di cui ci dimentichiamo colpevolmente di fare parte ogni qualvolta dovremmo compiere quelle azioni che ci consentirebbero di modificarlo e migliorarlo?

Dopo svariati altri giri di valzer ci mettiamo sulla via del ritorno. Sono passate le sei di sera quando ci accorgiamo di un capannello di terrapiattisti del virus illuminati dall’insegna di un bar. Propongo di approfittare dei nostri scafandri per scendere dall’auto a fare opera di divulgazione scientifica, ma il dottor xxxx xxxx mi dissuade prontamente dall’intento dicendomi che la possibilità che ci spacchino una bottiglia sulla testa non è poi così remota.

Lo racconto qualche giorno dopo a xxxx xxxx, un’altra infermiera della task-force, chiedendole cosa ne pensi lei dei famosi negazionisti, visto che oramai ne avrà curati tanti. Non si esprime, mi chiede soltanto se non ho letto un certo studio scientifico recentemente pubblicato al riguardo. No, non l’ho letto, non lo conosco e mi fiondo su Google per tentare di scovarlo. La ricerca di un’università brasiliana, pubblicata da Vice, spiega perché certe persone non rispetterebbero le norme neppure davanti all’evidenza di contagi e di morti. Si tratterebbe di persone accomunate da insensibilità, disonestà, tendenza ad avere atteggiamenti manipolatori, tratti che sarebbero associati alla psicopatia, al narcisismo ed al machiavellismo che costituiscono la cosiddetta “triade oscura della personalità”.

Atterriamo “nell’area calda” dell’ospedale adiacente al pronto soccorso che sono le sette di sera. Qui si effettuano la sanificazione del veicolo e il rito lunghissimo della svestizione, il momento più pericoloso dell’intera missione, perché è più facile entrare in contatto con le parti contaminate dello scafandro.

Dopo aver depositato gli zaini e affidato al laboratorio i campioni di sangue raccolti nell’arco della giornata, risaliamo nello studio al xxxx piano dell’ospedale. Forte della sua empatia e delle sue competenze in materia di semeiotica fisica, il dottor xxxx xxxx deve aver ravvisato il mio grave stato ipoglicemico e trova, non so come, l’energia di preparami una tazza di caffè caldo. Non solo, sfodera dalla sua borsa un barattolo di vetro col tappo a vite rosso. “Li ha fatti mia moglie”, mi dice. Oh mio dio, erano anni che non mangiavo dei biscotti così buoni! (e con assoluta mancanza di pudore ne farò sparire una buona metà).

Me ne vado, mentre il dottor xxxx xxxx comincia a leggersi la sfilza di WhatsApp dei suoi pazienti.

La mattina dopo mi alzo indolenzito. Accidenti che stanchezza! mi dico sbadigliando un occhio all’orologio. E pensare che a quell’ora il dottor xxxx xxxx sarà già scafandrato e ripartito, come ieri, senza sosta, come domani e come chissà quanti giorni a venire dovrà fare ancora.

Allora mi vergogno di me, e glielo scrivo.