Caosmosi, storie minime di nuomini novunque – Incontro con il dr Gianni Cavallini “Di sanità e Migrazioni”

Udine, 13/02/2020

Nell’ambito della mostra Caosmosi, storie minime di nuomini novunque, attualmente in corso presso Make Spazio Espositivo di Udine sino al 16/02/2020, si è tenuto l’incontro con il dottor Gianni Cavallini

“Di sanità e Migrazioni”

Gianni Cavallini è stato Direttore del Dipartimento di Prevenzione prima a Pordenone e poi a Gorizia, ha coordinato le attività di assistenza sanitaria ai migranti in accordo con Croce Rossa, Caritas, Cooperative e Volontari, partecipa alle attività di Mediterannea Saving Humans.

Qui seguito il testo del suo intervento:

“C’è qualcuno che non ha una casa? Sembrava una domanda banale.

Nel dicembre 2013, con la stagione fredda, scoprimmo che l’Isonzo era una seconda città. Lungo le sue rive, sia dalla parte di Gorizia che dalla parte di Gradisca, vivevano centinaia di ragazzi che le avevano trasformate in un tessuto quasi urbano. C’erano tende fra gli alberi, una parte dove si dormiva, una dove si mangiava, quella dove si cucinava. Ovviamente tutte strutture molto precarie, fatte di qualche lenzuolo e cartoni, però con una caratteristica particolare che ho trovato lì ma anche altrove. A Trieste in quello stesso periodo usciva su un quotidiano un articolo che titolava “Trieste, la città di cartone”, riferendosi alla zona fatiscente del porto vecchio in cui un’altra “comunità” non piccola di profughi, richiedenti asilo, migranti – chiamiamoli come vogliamo – si era costruita con dei cartoni degli alloggi, ma disegnandoci sopra finestre e fiori, cioè cercando di riprodurre, anche in quella situazione di assoluta marginalità, una dimensione a loro cara, a loro familiare. Quei ragazzi afgani e pakistani sognavano così la loro casa dove ripararsi dal freddo, coi fiori alle finestre.

Io, come Azienda Sanitaria, intesi subito concepire l’assistenza ai migranti non da istituzione che la erogava, ma come istituzione che attiva una rete. Per cui, ci fu subito un accordo fortissimo, che dura tutt’oggi, con la croce rossa di Gorizia, per offrire i nostri ambulatori in un modo non istituzionale, consapevoli che altrimenti i profughi non ci sarebbero venuti, perché ai loro occhi saremmo sembrati “Polizia”; non tanto perché credevo che loro potessero immaginare che fino agli ’60 l’assistenza sanitaria in Italia fu diretta dal Ministero degli Interni, quanto perché l’apparenza di certi edifici cozzava con la nostra volontà di mostrare ed erogare un servizio di prossimità. E abbiamo trovato da subito dei mediatori culturali, per rendere più semplici i contatti con quei ragazzi, di origine perlopiù afgana e pakistana.

A quel tempo eravamo nella fase in cui non c’erano ancora gli attuali decreti sicurezza, per cui scegliemmo di dare a tutti i migranti, a priori, il così detto STP, quel numero che gli consentisse di accedere ai nostri servizi alla stessa stregua di una tessera sanitaria, e non solamente per i casi di emergenza. Con quello eravamo in grado di rilasciare loro ricette, impegnative per visite ed esami strumentali, e quant’altro potesse essere necessario. Perché questo? Quando arrivavano, in quei giorni in cui lavoravamo ogni giorno e parecchie ore al giorno, facevamo dei primi screening per capire se erano affetti da malattie oppure no. La maggior parte di loro era sana – così dicendo, dico una mezza verità che dopo vi spiegherò meglio – e quindi non aveva bisogno di ulteriori accertamenti. A chi, invece, ne aveva bisogno, garantivamo come Azienda Sanitaria l’accesso alle strutture ospedaliere.

Dunque, facendo un passo indietro, perché dicevo “una mezza verità”? Perché quei ragazzi migranti erano sani da un punto di vista strettamente fisico; non avevano malattie croniche, perché erano giovani e venivano da contesti in cui le malattie croniche non ci sono perché si muore prima. Non avevano malattie infettive trasmissibili. E quindi, ufficialmente, erano sani. Però una quota significativa di loro aveva lesioni traumatiche da violenze subite lungo il viaggio e duramente l’attraversamento dei confini. Una parte di loro, di cui si occupò soprattutto Medici Senza Frontiere, che collaborò con noi per un periodo in quell’attività, avevano sintomi ed evidenze di sofferenza psichica.

Tra me e medici senza frontiere c’è sempre stato un dissidio su questo: per me la malattia mentale ha una sua classificazione e la percentuale fra loro di veri e propri sofferenti mentali è esattamente la stessa che c’è fra la nostra popolazione autoctona. Quindi non è vero che si sono portati dietro malattie mentali: quella che avevano, era la sofferenza dell’arrivo. Dopo i mesi e gli anni impiegati per il viaggio per arrivare sin qui, soffrivano dell’inazione, dell’inattività. Traduciamolo, questo principio: prima dei decreti Salvini sembrava che tutto fosse bello, lo SPRAR, la prima accoglienza, invece per questa gente super attiva l’arrivo da noi ha significato “te ne stai fermo; ti diamo da mangiare, ti diamo da dormire, da lavarti, ti diamo i vestiti, ti facciamo il corso di italiano (anche se a pochi di loro interessava perché il loro obiettivo era raggiungere la Svezia, l’Inghilterra, la Germania), ti facciamo corsi di formazione professionale (che, anche in questo caso, a pochi interessava, perché avevano altre mete e altri obiettivi)”. Tutto questo dentro a un regime di regole ferree (benché la Prefettura di Gorizia sia sempre stata abbastanza tollerante), ad esempio: alle ore 20:00, anche nel sistema di accoglienza diffusa, i richiedenti asilo dovevano essere a casa e l’ente responsabile dell’accoglienza diffusa doveva individuare una propria figura di riferimento  deputata al controllo del rispetto di tale regola e assoggettarla all’obbligo di segnalarne alla Prefettura eventuali violazioni, la cui pena consisteva nell’esclusione dei richiedenti asilo, che a quel punto diventavano clandestini (di casi ne abbiamo centinaia), dai sistemi di accoglienza. Immaginate, dunque, quei ragazzi, che durante il giorno lavoravano per 2 euro all’ora per dieci ore al giorno, sette giorni su sette, perché il loro obiettivo era inviare i soldi guadagnati a casa – mandare 200 euro al mese significava far vivere le loro famiglie come le nostre benestanti – e non rimanere chiusi dentro ad una struttura o dovervi fare ritorno entro le 20:00; quei ragazzi che si vedevano comunque preclusa la possibilità di scegliere di andare altrove, e capirete la causa principale della loro sofferenza, che non è una patologia.

Altro discorso è la scabbia, che per me non è una malattia, ma un segno di scarse, precarie, disperate condizioni igieniche. Di tutti quelli che ho visto arrivare, la metà avevano la scabbia. Spogliati, fatta la doccia, applicata la crema che avevamo preparato, la scabbia spariva. Non ho mai visto una scabbia resistere a questo banalissimo trattamento. Quindi anche questa non è una malattia. Le malattie infettive vere e proprie erano poche, forse complessivamente una trentina di casi di tubercolosi, ma sfido qualunque scienziato a dire che in questi anni è mai stata trasmessa da un profugo a un autoctono. Questa era la condizione dell’accoglienza.

Già allora però esistevano – e ve lo dico con tutta onestà, perché i luoghi di contenimento non li ha inventati Salvini, ma la prima legge che li ha istituiti porta il nome di Turco e Napolitano – centri di detenzione per reati amministrativi: vuol dire che se io ti trovavo privo di permesso di soggiorno tu finivi lì dentro, mentre se uno ruba, vende droga o fa una rissa va in carcere, né nel CIE e né nel CPR, come oggi.

Ecco, dentro lì, in quei luoghi di contenimento, è un altro mondo.

Io conosco bene anche le carceri di questa regione, ci ho lavorato, ma non c’è paragone. Io personalmente ho sempre contrastato strutture come il super carcere di Tolmezzo dove si applica l’articolo 41bis perché mi pare una tortura. Capisco che le persona che sono lì dentro ne hanno fatte di tutti i colori, però io faccio fatica ad accettare che uno stato eserciti la tortura nei confronti di un cittadino. Ma in confronto al CIE o al CPR, il super carcere di Tolmezzo è un albergo di lusso.

Da un punto di vista strettamente alloggiativo, io sono stato anche responsabile della certificazione di non idoneità del CIE di Gradisca. Il suo interno, che assomiglia grossolanamente nella forma a una serie di casa a schiera, con le porte rumorose di un carcere, è uno spazio teoricamente aperto perché sovrastato dal cielo, ma interamente costellato di gabbie metalliche di un certo spessore.

E’ una cosa terribile. Ogni volta che l’ho rivisto mi ha angosciato.

Ogni gabbia ha tre lati. Sul quarto lato c’è una porticina che conduce a una cella mensa non areata. Oltrepassata la quale, attraverso uno stretto corridoio con due servizi igienici ai lati, anch’essi non areati, si giunge alla stanza dormitorio concepita per contenere 6 o 8 persone al massimo, ma dove mi è capitato di vederne dormire ammassate anche 20, con finestre non apribili per motivi di sicurezza. L’unica differenza fra il CIE di un tempo, in parte demolito da rivolte al suo interno e da quel certificato di non idoneità, e il CPR di oggi è che le finestre delle stanze dormitorio si possono aprire, ma sono state coperte da nuove, ulteriori, gabbie metalliche.

Ora voi capite quale può essere l’aspirazione di un migrante.

Per chi ha fatto parte dei progetti di prima accoglienza, ha lavorato sotto padrone ogni giorno nei campi finché c’era luce, che per il semplice fatto di aver violato il “coprifuoco” delle 20:00 si è ritrovato espulso dall’accoglienza, ma ha continuato ugualmente ad andare a lavorare e a un dato momento, mentre era alla ricerca di un giaciglio di fortuna dove passare la notte, viene intercettato dalle forze dell’ordine, che scoprendolo senza permesso di soggiorno lo conducono dentro al CIE o al CPR, dentro a quelle gabbie, magari per due anni, in attesa di un improbabile rimpatrio – improbabile perché i rimpatri sono possibili verso una parte assai limitata di Paesi coi quali esistono dei precisi accordi internazionali – in uno spazio ristretto, dove si fatica a convivere con altri che non conosci, delle nazionalità più disparate, di lingue diverse, di religione diverse, di abitudini diverse, in un contesto che non può che diventare una polveriera, la massima aspirazione è fuggire. Chi è dentro lì tenta di fuggire. Per fuggire le inventano tutte. La prima cosa che provano in ogni maniera, anche attraverso l’autolesionismo, è finire  in ospedale, perché pensano che da lì sia più facile scappare.

Prima vi ho raccontato della prima accoglienza e dell’accoglienza diffusa. Che cos’è, invece, l’assistenza sanitaria dentro ai CIE e CPR? Caso unico in Italia, esiste solo nei CIE e CPR, l’assistenza sanitaria è a carico dell’ente gestore. Perché faccio questa premessa? Perché nelle carceri, da anni, la responsabilità sanitaria è passata alle aziende sanitarie. VI faccio l’esempio del carcere di Gorizia: al suo interno abbiamo creato un presidio medico adeguato in cui a turno, sette giorni su sette per 6 ore al giorno, due medici e due infermiere forniscono assistenza ai pazienti detenuti che non necessitano di esami diagnostici, visite specializzate, o quant’altro ne richieda l’ospedalizzazione. Questa è l’assistenza erogata dall’Azienda Sanitaria. Nei CIE e nei CPR questo non accade. Il responsabile dell’assistenza sanitaria, come dicevamo, è l’ente gestore che, anzitutto, deve fare i conti col suo budget o, meglio deve, fare in modo di guadagnare.

Anche qui potremmo aprire un capitolo infinito sulle cooperative, sulle associazioni, o sui diversi enti che ruotano in questo contesto. La cooperativa che ha vinto l’appalto a Gradisca è famosa per aver gestito il centro di accoglienza di Cona, dove nel 2017 è morta in circostanze mai chiarite – ma evidentemente perché non assistita dal punto di vista sanitario – una donna africana (ndr. Sandrine Bakayoko, 25enne ivoriana). Cona è il centro dal quale in mille partirono in corteo verso la Prefettura di Venezia per protestare contro il trattamento subito da parte di quella cooperativa che lo aveva in gestione.

Non si tratta di un discorso sulle cooperative bianche o quelle rosse. Oggi molti delinquenti aprono cooperative per beneficiare di trattamenti fiscali favorevoli. Credo che quella cooperativa lì non appartenesse ad alcuna fazione. Ecco, oggi quella stessa cooperativa ha vinto la gara d’appalto e gestisce il CPR di Gradisca. Le infermiere che sono presenti attualmente all’interno del CPR di Gradisca non sono sicuro che siano infermiere, non mi sento di dichiararlo, credo che siano semplicemente operatrici della cooperativa stessa. La presenza del medico, che cambia continuamente, è saltuaria. Fanno fatica a trovare medici disponibili. In genere si tratta o di medici pensionati o di medici appena laureati, che appena mettono piede nel CPR si spaventano.

Ho chiuso la mia carriera il 31 dicembre del 2019 proprio lì dentro, nel CPR di Gradisca.

Nei giorni successivi l’ente gestore mi convocò e mi propose di ritornarci a fare il medico. Io li guardavo. Ad un certo momento hanno cominciato ad alzarmi il prezzo della prestazione che mi proponevano.

Li guardai e gli chiesi allora: ma, secondo voi, nel ’41 ci sarebbe stato un prezzo per andare a fare il medico a Mauthausen?

Quando noi pensiamo al CPR come luogo di contenimento amministrativo non pensiamo che è anche un luogo di contenimento sanitario. Intanto: nel CPR c’è un uso smodato di psicofarmaci, nel senso che li acquistano e li danno agli “ospiti” ai quali mi risulta che nessun medico li abbia prescritti, nell’illusione di evitare le rivolte, le fughe e l’autolesionismo con la somministrazione di farmaci. Ma l’aspirazione umana, l’anelito alla libertà da parte di uno che non ha commesso nulla, che è scappato da luoghi di miseria, da luoghi di guerra, da luoghi desertificati a causa del nostro modello produttivo, è neutralizzabile con una pastiglia? E’ un principio terribile. Ogni volta che sono entrato dentro al CPR non ho mai sentito un attimo senza urla.

La struttura sanitaria di un CPR è quella che vi ho descritto. Un medico lì dentro visita come si visitava cinquant’anni fa, senza strumenti e spazi adeguati. Se la regola di ingaggio è, perché questo chiede la questura, riducete all’essenziale le persone che mandate in ospedale a fare gli accertamenti, perché c’è il timore di fuga, questa domanda, nel 2020 dovrebbe essere soddisfatta con un fonendoscopio e le mani che auscultano il torace? Nel mondo terapia e diagnosi non si fanno più così. Ora, perché deve esistere un luogo di contenimento per reati, se sono reati, amministrativi, in cui la diagnosi e la terapia devono essere fatte in quel modo? E’ strutturata per essere fatta in quel modo, tanto da far sembrare una richiesta di accertamento un oltraggio alle forse delle ordine, che sarebbero costrette in quel caso, ad organizzarsi, spostarsi, presidiare. Quindi qual è la qualità di un’assistenza sanitaria di questo tipo?

Poi ci sono altre “categorie” – anche se questa sera avrei dovuto soffermarmi a parlare del CPR, ma guardate che sono tante persone –  di gente che se si ammala e non può andare da nessuno per farsi curare. In Italia sono fioriti gli ambulatori che assistono queste persone, anche nella nostra regione. Ma anche in questi casi, come fai una ricetta, visto che ci sono ancora tanti luoghi, anche in regione, dove non si ricorre al rilascio del STP? Qui noi siamo in presenza, in Italia e in Europa, di una popolazione migrante – pensando, ad esempio, alle ventimila badanti che ci sono in Friuli Venezia Giulia, di cui una quota non piccola è irregolare – che non hanno diritto all’assistenza sanitaria. Persone che se si ammalano non si curano, che corrono il rischio di perdere la capacità lavorativa, con il rischio potenziale, mai realizzato, che in caso di malattie infettive possano contaminare altri. E come si fa fronte a una situazione del genere?

Fincantieri: Fincantieri è la più grande impresa di questa regione, una delle più grandi d’Italia, che costruisce navi, che per l’86% è a capitale pubblico, soldi dello stato italiano, ma che però in nome dell’efficienza ha ristrutturato il proprio ciclo produttivo. In che modo lo ha fatto? A Monfalcone esistono 1.500 dipendenti Fincantieri e, altri, tra i 4.500 e i 5.000 dipendenti di imprese diverse che lavorano dentro Fincantieri, che inizialmente erano bosniaci, serbi, ecc. Poi qualcuno ha scoperto che nel Bangladesh gli uomini sono agili e piccoli di statura e quindi andavano benissimo per lavorare nel fondo delle navi, nelle parti dove ci sono i motori. Per cui ad un certo punto abbiamo avuto quasi 2.000 operai dal Bangladesh che lavoravano dentro Fincantieri a Monfalcone, con tutto il portato di mogli e figli, per cui il centro di Monfalcone era abitato per il 50% da stranieri, a cui nessuno si preoccupava di dare servizi. Perché ho parlato al passato degli operai dal Bangladesh dentro a Fincantieri? Perché questa multinazionale italiana a capitale pubblico ha scoperto che può far lavorare manodopera nelle navi spendendo ancora meno soldi di quelli impiegati per stipendiare gli operai del Bangladesh. E in che modo? Espandendosi a livello sovranazionale,  l’azienda ha acquistato un cantiere navale in Romania e, in maniera legale secondo le normative europee, prende gli operai rumeni e li porta a lavorare in Italia con lo stesso contratto, pagato in leu, che quelli avevano nei cantieri della Romania. Quindi, se Fincantieri già pagava poco i suoi operai del Bangladesh, oggi spende ancora meno per pagare in leu quell’impresetta rumena, a cui subappalta una quota dei suoi lavori, che si porta in qua i suoi operai.

Cosa significa per un lavoratore straniero avere un problema di salute? Per molti anni la risposta è stata data dall’Azienda Sanitaria. Per chi non è cresciuto come noi in un sistema di sanità pubblica, la domanda di salute cerca come risposta il pronto soccorso, l’unica porta che si apre senza la carta di credito. E così anche il pronto soccorso di Monfalcone ad un certo punto era arrivato a registrare fino a quarantamila accessi in un anno. E la risposta qual è stata, dell’Azienda Sanitaria e del Comune? Che non si poteva più andare al pronto soccorso, che sarebbe stato aperto un ambulatorio interno a Fincantieri.

Beh, scusate l’analogia: ho un ambulatorio di contenimento dentro al CIE o CPR e ne costruisco uno dentro alle mura di Fincantieri. Dentro a quelle mura di chi mi fa lavorare, ore oltre il contratto, che mi paga in leu e non in euro, che se mi succede qualcosa non ne risponde perché dipendo da un’impresetta che se dura 12 mesi è già tanto. Allora dico: non è un caso, non è più un caso.

Sui migranti, anche in campo sanitario, stiamo sperimentando una nuova politica: la politica di tanti lavoratori che non devono avere diritti, che devono guadagnare pochissimo – guardate che nelle nostre campagne, anche di questa regione, è diffuso il lavoro a 2 euro all’ora – che possono unicamente contare sulla pietas umana rappresentata dal nuovo modello, che rischia di diventare imperante, della precarietà sanitaria. Un modello che si diffonde e si sta diffondendo. E’ questo che a me preoccupa molto, che si affermi nel nostro Paese questo modello sanitario, inizialmente dedicato a singole categorie, non fondato sul diritto pubblico di accedere a un servizio di qualità, ma regolato da regole “altre”. Noi, oggi, abbiamo già una sanità differenziata, quella dei ricchi che vanno nel privato, quella del ceto medio e delle lunghe liste di attesa e di tutti gli altri problemi che conosciamo e, infine, la sanità degli altri, quelli del girone dei poveri, dei migranti, degli emarginati.

Se noi le lasciamo esistere, queste disparità si estenderanno.

Concludo raccontando questo aneddoto: mio padre mi portò quand’ero bambino a visitare il campo di concentramento di Dachau. La cosa che mi sconvolse fu verificare che distava meno di 1 chilometro dalla città. Quello di Dachau fu il primo campo di concentramento aperto, nel 1934, ben prima della guerra e dei genocidi di massa. La popolazione rimase indifferente a quel luogo, perché tanto riguardava quelli che erano lì dentro. Poi, con la guerra, avrebbero scoperto che anche molti di loro sarebbero finiti lì dentro. Io tornando verso casa con mio padre mi chiedevo e chiedevo a lui: ma se io quella volta fossi stato lì e fossi stato adulto, cosa avrei fatto? MI sarei girato dall’altra parte? Questa domanda mi ha accompagnato fino a oggi.

E quindi i CPR? Primo: continuerò a contrastarli, a battermi il più possibile per farli chiudere. Secondo: se posso aiuterò la gente a scappare da lì (ho un’età per cui non ho paura di essere incriminato per reati verbali). Quei luoghi non possono esistere. Ma non per una questione di giustizia astratta, ma per una questione molto concreta, e riguarda tutti, anche noi. Noi non possiamo vivere con un sistema sanitario che ammetta il fatto che vi sono persone che non hanno diritto all’assistenza. Perché se noi lo accettiamo e lo rendiamo quotidiano e normale, il destino è che tutti quelli che non saranno di pelle bianca, ricchi, finiranno prima o poi in quello stesso girone. Non è una battaglia ideologica, come qualcuno si ostina a rivendicare, è una questione che riguarda concretamente ognuno di noi.

Ma forse molti non se ne rendono conto”.