Alcune delle cose che sono state dette durante gli incontri in calendario:
18 ottobre 2019:
Oggi alle 19 non c’è stata l’inaugurazione programmata. Tutto rimandato al giorno 25, per ragioni indipendenti dalla volontà mia e degli organizzatori. Ma devo essere sincero: non sono dispiaciuto fino in fondo per questo imprevisto. Questo slittamento di date apre la porta al tempo dell’attesa – prima ancora che le porte del Cavò – un tempo che non c’è più, un tempo che mi manca molto, che si riprende audacemente la scena dominata altrimenti dagli “eventi”, quei bossoli virtuali, astratti, che fagocitata l’esistenza s’inghiottono senz’acqua, in un post. Un tempo, quello dell’attesa, pieno, ricco, necessario, decisivo per coltivare gli orti dei dubbi, delle domande, delle riflessioni delle incertezze, cibo vitale per sfamare l’intera cultura di una società civile, per chi la fa e per chi la consuma.
Sarà dunque un cammino lento, quello che ci separa, meravigliosamente anticonformista e fastidioso per i discepoli delle risposte istantanee, che spesso diventano slogan, ancora più spesso false-verità. Ma sarà un cammino reale nel quale potersi sprofondare, al di fuori e al di là della semplice immaginazione, un percorso vero che, come ho scritto oggi a beneficio della redazione di The Mammoth Reflex, rappresenta per Caosmosi una sorta di ritorno a casa, ovvero il luogo in cui finalmente ci si confronta con tutto ciò che si è raccolto e accumulato durante il viaggio e lo si condivide.
Una casa tutt’altro che figurata, visto che anagrammando il Caos, il Caso ha voluto che Caosmosi approddasse al Cavò, uno spazio vivo, prima ancora che espositivo, incastonato nel quartiere di Cavana, cuore della città vecchia affacciata sul mare, dedalo di vicoli e salite improvvise che, nonostante l’attuale immagine mondana e modaiola, conserva tuttora gli echi del porto, dei contrabbandi, dei postriboli e degli orinatoi a cielo aperto, degli acciottolati calpestati da miriadi di genti in transito, semplicemente stranieri, come quelli ritratti nelle fotografie, ma anche da intellettuali, poeti e scrittori assiduamente a caccia di ispirazione. E fatalmente tre parole contenute nell’opera ultima di uno di essi sono state prese in prestito per dare il titolo a questa raccolta fotografica: “caosmosi”, “nuomini” e “novunque”sono tratte dal quel “Finnegans Wake” nel quale James Joyce oltrepassa definitivamente il confine, in questo caso del romanzo tradizionale, per mostrare, con associazioni di idee che danno vita a parole nuove, che la narrazione non è il frutto di una trama, ma di un incrocio incessante di trame, ingorghi e situazioni paradossali, quei percorsi irrazionali dell’esistenza che fluiscono attraverso le coscienze.
Voglio interpretare la negazione casuale di questo momento, quello dell’inaugurazione, come la negazione indispensabile di quei formalismi che prevedono un prologo e poi la messinscena. E ritrovarmi a mollo, senza scuse e senza sconti, nel grande mare. Ci vedremo lì, per chi vorrà, il 25 ottobre.
Paolo Youssef
25 ottobre 2019 – serata incontro con Roberta Altin:
n attesa di incontrarci nuovamente al Cavò, questa volta insieme a Luca D’Agostino, mercoledì 6 novembre alle ore 19, riporto di seguito alcune delle cose che abbiamo detto il 25 ottobre, nel mio intervento introduttivo alla mostra e in quello conclusivo dell’amico Fawad Raufi, che hanno fatto da cornice al dialogo sulle migrazioni con la professoressa Roberta Altin, antropologa dell’Università di Trieste, responsabile del centro interdipartimentale su Migrazioni e Cooperazione Internazionale allo Sviluppo Sostenibile.
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Queste fotografie sono documenti, indizi, tracce storiche di ciò che non è stato altrimenti mostrato dell’ultima signifcativa ondata migratoria che transitò lungo la rotta balcanica fra il 2015 e il 2018, ovvero di cosa accadeva alla fne della così detta Balkan Route, una volta valicato il confne Nordest dell’Italia e raggiunto il Friuli Venezia Giulia, vero e proprio limbo considerato dai migranti di ultima generazione come il ponte verso l’agognata Europa.
Anche in Caosmosi, un po’ come nell’Ulisse di Joyce, il cui titolo al neon rosso si contende oggi la penombra di questo vicolo (del Cavò, ndr.), compare una miriade di individui sconosciuti e di storie non raccontate. Ma in Caosmosi, diversamente da ciò che accade nell’Ulisse di Joyce, non c’è evidentemente alcun eroe a rappresentare l’avventura dell’uomo nel mondo, che viaggiando costruisce la propria identità, arricchendosi delle diversità con cui entra in contatto, senza risultarne annullato o distrutto.
Chi sono, allora, i protagonisti di Caosmosi? E’ questa la prima domanda che io stesso mi sono posto nel ritrovarmeli davanti. Rifugiati? Profughi? Sfigati? Invasori? Migranti economici? Richiedenti asilo? Come si fa il ritratto di entità che ad un certo punto non è più possibile ignorare, entità che, esulando dai propri confni territoriali, esulano dagli schemi obsoleti delle convenzioni internazionali che vorrebbero etichettarle e, nel contempo, dagli schemi irrisolti delle convenzioni umane che non vogliono, concordemente, defnirle?
Nè rifugiati, né persone. Merci in transito?
Ebbene, la mia risposta si sostanzia, si amplia e si confonde nel pensiero di un reporter spagnolo (Agus Morales, ndr.), ben più focalizzato di me sul fronte delle migrazioni, e ne esce questo credo:
In questa mostra non c’è un ritratto tipo del nemico invasore che la destra vuole creare: non c’è islamofobia, non c’è razzismo, non c’è una rivendicazione delle frontiere. In questa mostra non c’è un ritratto tipo dell’amico vulnerabile che la sinistra vuole creare: non ci sono essere angelicali, non ci sono lacrimevoli bugie, non c’è una rivendicazione dell’apertura delle frontiere. Però in questa mostra non c’è falsa equidistanza: c’è volontà vera di capire e combattere lo squilibrio, la disuguaglianza, l’ingiustizia sociale, reale, crescente, dilagante, le promesse di paradisi ricompensate con inferni, che stanno alla base di tutte le migrazioni e di tutte le persecuzioni, di quelle visibili e di quelle invisibili, perché questo mondo di stragi, di esodi forzati, in cui nessuno è al sicuro e nessuno è innocente, è una merda.
In questa mostra all’italiana non c’è un ritratto storico dell’immigrato: non c’è il terrone che veniva a rubare il lavoro al nord, non ci sono i bambini con le pance gonfie e le mosche in bocca che si adottavano a distanza e che poi da grandi son venuti qui a suonare i campanelli
“ciao mamma, ti ho portato fazzoletti, calze, accendini”, non ci sono le ragazzine vittime di tratta sessuale che venivano a rubare i mariti, non ci sono i negri africani importati a basso costo dalle fabbriche nostrane per compiere il miracolo economico del nord-est, salvo diventare un costo insostenibile quando delocalizzare quelle stesse fabbriche oltre confne è diventato più redditizio ancora, non ci sono i sudditi dei caporali e neppure le badanti in nero.
Questa mostra è la sintesi iconografca di un simbolo, l’ultimo in ordine di tempo, costruito nella fabbrica del caos per legittimare quell’idea di emergenza tanto cara quanto necessaria all’esercizio del potere malato di economia e a all’economia malata di potere che stanno devastando non solo questa regione, l’Italia e l’Europa, ma il mondo intero, dalla Siria all’Ecuador, nella più grave crisi planetaria che la storia abbia mai conosciuto.
Questa mostra è la prova di quanto possano essere pericolosi i simboli, sia che abbiano le sembianze umane di un rifugiato che le sembianze divine del sacro cuore di maria, che di fascisti o comunisti, Pepponi o Don Camilli, milanisti o interisti, o di un qualunque altro vessillo adottato e brandito o soltanto idolatrato da qualsivoglia individuo, gruppo, movimento, associazione o partito, che per ragioni ideologiche o di utilità si appropria anche della questione migrazioni secondo logiche di schieramento, in base alle quali l’ostinazione nel difendere un principio, giusto o sbagliato che sia, prevale sulla volontà di capire, combattere e sconfiggere i problemi veri e le cause univoche e reali che li determinano, che infatti sono ancora lì, più sconosciute, ignorate, grandi e gravi di prima.
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“C’è un mondo che si è ormai sgretolato. Quello del nuovo ordine mondiale, quello della globalizzazione, quello del multiculturalismo. Siamo invasi dalla stessa nostalgia di colui che vede crollare la casa delle propria infanzia. Forse quell’estasi contemplativa ci ha distratto dal nuovo mondo che sta già nascendo: un mondo in cui sono avvantaggiati coloro che non si sono mai intrattenuti con la poesia”.
Agus Morales
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E per noi, che almeno per quella sera il vantaggio a coloro non glielo abbiamo voluto dare, Fawad Raufi ha letto questi versi suoi:
La voce di fraternità
Se io avessi
la possibilità di fare un miracolo
a tutti i cittadini del mondo,
sceglierei una lingua per comprenderci,
una lingua che racchiude la voce di ogni persona,
una lingua che ci fa stare insieme,
una lingua che ci insegna
che nessuno è più importante dell’altro,
una lingua di cui le sue lettere
siano amore, pace,
rispetto, convivenza,
pazienza e umiltà
una lingua di cui la sua origine
sia umanità.
Una lingua di fraternità
e non di colonizzazionità.
Fawad Raufi
Fawad Raufi è nato a Kabul, in Afghanistan, nel 1991. Poeta e scrittore, in Italia dal 2016, è autore del libro “Dall’Hindu Kush alle Alpi, viaggio di un giovane afghano verso la libertà”, ZeL Edizioni.
6 novembre 2019 – serata incontro con Luca D’Agostino:
A proposito di quei due mondi tanto diversi del vasto universo della fotografia ai quali avevo accennato, quelli che si sono incontrati ieri sera al Cavò, qui c’è una parte dei pensieri che ho raccontato che non potevo limitarmi a sperare uscissero per caso, perchè il dialogo improvvisato, l’improvvisazione, che pure c’è stata ed è stata bella, intensa, sentita – e mi dispiace per chi non c’era – non basta più. O meglio, non basta più a giustificare se stessa, la propria presenza ingombrante, inopportuna, dannosa, sconveniente, in contesti e dentro questioni dove ormai dilagano e imperversano senza pudore superficialità, approssimazione, incuria e incoscienza. La politica, ad esempio.
Nessuno affiderebbe tutto ciò in cui crede all’improvvisazione. Per il musicista Jazz l’improvvisazione è l’arte del suo opposto: delle basi, delle fondamenta solide, dello studio, della curiosità della conoscenza, dell’attenzione, dell’introspezione, dell’ascolto, della ricerca, dell’umiltà, della scoperta, e così via.
Per il fotografo, idem.
E come nel Jazz, così anche nella fotografia, la musica è architettura della narrazione, del racconto, fatto di ritmo, di un tema centrale, di pause, accenti, note di passagio, pause, silenzi, toni gravi, forti, fortissimi, ostinati, ribattuti, umori, errori e di tutte le passioni d’un vascello che lotta e dolora fra le creste dei flutti che la notte gli cela e che sul vasto abisso lo cullano ancora (scusa Baudelaire).
Il racconto fotografico, esattamente come la composizione musicale, ha il potere di trasfondere per empatia il fuoco primordiale che l’ha generato, quel genere di fiamma vitale che si moltiplica per divisione.
Ma ho creduto che ieri sera non fosse poi così importante trovare gli alibi delle analogie ma riconquistare, piuttosto, la ricchezza delle perdute diversità.
Un tanto anche perchè, se vogliamo, la prima guerra che la fotografia sta combattendo, o dovrebbe combattere (beata l’ora!), è quella contro una certa parte di sè.
VIsto che lì ieri sera eravamo in due, io e Luca (la Ferrari della fotografia di Jazz), della diversità ho cominciato parlandone così, con qualche esempio:
Fotografia ce n’è una? No: ce ne sono tante.
Luca è un artigiano, che per portarsi a casa il pane produce delle foto bellissime che un committente gli chiede.
Paolo è un cane sciolto, che per avere mani libere nel far ricerca, soprattutto nel mondo d’oggi, il pane se lo procura facendo un altro lavoro. Luca sa che il suo ruolo di fotografo d’arte è quello di apparire, per conferire ancor più valore all’opera sua.
Paolo sa che il ruolo suo è quello di scomparire per lasciar spazio, per far emergere ciò che conta: soggetto e contenuto di una storia.
Nelle foto di Luca è spesso il personaggio, la celebrità, a far grande una fotografia.
Nelle foto di Paolo si prova a render grandi i pezzi d’argilla, a rendere visibili gli invisibili, a dare volto agli umili, alle vitime, agli ultimi.
Nelle foto di Luca l’estetica è la ricerca del bello, e guai se così non fosse.
Nelle foto di Paolo il significato di estetica è blindato nel suo confine etimologico: la mediazione che avviene attraverso i sensi, anche di guarda, trascinato dentro ad una fotografia per un momento di confronto attivo, di condivisione, di riflessione collettiva, di azione rispetto alla provocazione che una fotografia porta in sè.
Apro e chiudo una parentesi: questo è il genere di mediazione che, secondo il mio sentire, trova il suo brodo primordiale nel bianco e nero, che non è dunque il sostrato di una scelta di stile.
Il colore (pur amando tanta fotografia a colori) è per me uno spazio eccessivamente chiuso, didascalico, maniacalmente descrittivo, finito.
Nel bianco e nero ritrovo uno spazio che abbraccia contemporaneamente realtà sentimento, immaginazione, pensiero. Uno spazio indefinito, o meglio infinito, aperto a chiunque accetti di perdervisi per ritrovarsi.
Dunque, la prima parola chiave della serata di ieri era Diversità. Con essa mi confronto, inevitabilmente, continuamente.
Della macchina distruttrice della diversità che è il potere omologante mi sono occupato a fondo in una ricerca dal titolo “!0 Tavole, diario eretico di una guerra invisibile contro le centrali dell’omologazione”, ma anche altrove ho finito e finisco per scontrarmici continuamente, perchè è un potere che ormai pervade, come una metastasi, qualunque aspetto del nostro vivere personale e sociale.
Si parlava di fotografia? Ebbene, il potere omologante divora anche quella, quelle sue succursali che in modo del tutto autoreferenziale comprano, vendono, barattano, confondono identità fittizie in cambio di quella mostruosa chimera chiamata Visibilità.
Visibilità è, per stridente contrapposizione, l’altra parola chiave di ieri sera. Essa è la chiave della prigione che ci separa dalla realtà. Una prigione senza finestre sul senso dell’esistenza, della vita e di sè, oltre che del proprio lavoro o della propria missione. Una prigione in cui anche la fotografia, giustamente, si arena e muore.
Ognuno sia cosciente e si assuma la responsabilità del proprio ruolo e della propria identità (sempre che riesca a ritrovarla). Questa è la vera sfida del Presente.
Non a caso avevo scritto, e riporto ancora di seguito, questa breve introduzione alla serata:
E’ un momento delicato per parlare di Fotografia, poichè una parte significativa di essa è impegnata sul fronte della difesa della verità, nel contesto di una lunga ed estenuante guerra (un’altra) per il controllo della (dis)informazione, fattore chiave su cui si giocano i nuovi equilibri economici e politici e le trasformazioni scientifiche e sociali che determineranno gli esiti delle quattro principali, e interconesse, sfide mondiali: globalizzazione, digitalizzazione, cambiamenti climatici e migrazioni.
Hanna Arendt scriveva che il suddito ideale del regno totalitario non è il nazista convinto nè il comunista convinto, ma l’uomo per cui la distinzione tra fatti e finzione e la distinzione tra vero e falso non esistono più. L’impegno civile della Fotografia, “antidoto alla distrazione di massa” come amo considerarla, è quello di tracciare una mappa del reale, che inciti nell’uomo la consapevolezza necessaria per liberarsi dal labirinto dell’astrazione e imboccare la via del progresso.
La profezia della Arendt, scritta nel 1951, è compiuta.
Viviamo in una società che non distingue più il falso dal vero, il Regime delle false Verità, come ho letto nella sintesi felice che darà il titolo alla prossima stagione di incontri della Scuola di Filosofia di Trieste, delle fake news, che come preconizzato nel ’79 da Viola hanno dato vita a una società puramente astratta, un sistema indifferente alla realtà esistenziale degli uomini e per gli uomini, giocato sulla falsa distanza tra virtuale e reale, sull’analfabetismo emotivo e funzionale abilmente fabbricato dalla televisione secondo l’ultimo Pasolini, che oggi se la prenderebbe (ci manchi!) anche coi social, e molto altro. Abilmente fabbricato giorno dopo giorno, anno dopo anno, da quel potere omologante che esige i propri sudditi.
Come siamo passati da Alfredino ad Aylan, dal grande audience del pozzo che inaugurò la stagione della TV del dolore, alla voragine di una bocca riversa sulla sabbia che inghiotte l’apatia di chi la guarda distratto senza staccare la forchetta dal piatto?
Come siamo rimasti intrappolati fra la “banalità del male” e la morte banale, quella dell’Homo stupidus stupidus ritratto da Andreoli?
La fotografia è un atto intermedio, minimo, fra il dubbio, la ricerca, l’umiltà, la scoperta, l’apprendimento, il confronto, la conoscenza, la responsabilità, l’impegno civile, la coscienza, la dedizione, il valore, l’ideale, l’utopia, la speranza, la rabbia, il dolore, l’impotenza, la voglia, la forza che si realizzano nel riarmare e nel riarmarsi di quella consapevolezza necessaria per uscire da questo dannato labirinto globale dell’astrazione 2019 costellato di percorsi senza senso.