Note: il Foto-Video di Stella Polare è qui riportato al termine del testo di presentazione “L’Amoremio. Scatti d’autore contro la divina indifferenza” curato da Angelo Floramo. Inoltre, a fondo pagina, è possibile ascoltare l’intervista a Pia Covre, segretaria generale del Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute, che racconta il progetto sociale denominato Stella Polare, che ha l’obiettivo di aiutare le donne che chiedono di uscire da situazioni di grave sfruttamento, anche sessuale:
L’Amoremio. Scatti d’autore contro la divina indifferenza
di Angelo Floramo
Esistono luoghi in cui anime e corpi perdono la loro definizione oggettiva per stemperarsi in indistinte schegge di dolore. Come si racconta il male di vivere, quando è una ferita da taglio tanto profonda che non si rimargina più? Così cruda da graffiare le ossa dei pensieri? E’ nella periferia dell’anima che si annidano i singhiozzi più straziati, quelli che non si sanno nemmeno sputare per paura che si fermino in gola, e soffochino il respiro con l’arsura di un grido. Così inevitabilmente muto. Sabbia e polvere a inturgidire la lingua, a chiudere fra i denti ogni possibile parola. E’ nella periferia delle grandi città che spesso tutte queste storie vengono sbattute via negli angoli della nostra colpevole inconsapevolezza, dove è più facile che vengano dimenticate.
Melara è l’architettura perfetta per disseminare la memoria di reticolati in cui il ferro si intreccia alla spina. Uno stalag senza le serrature, nemmeno fosse il trionfo di una maledetta distopia. E’ cresciuto come una protuberanza innaturale tra la solitudine brulla del Carso e il culo di Trieste, a mollo in un mare così tanto nero che macchia la coscienza di chi si sporge per poterlo appena vedere, da queste ciglia tutte sassi e cespugli. Dall’altra parte della città c’è il resto del mondo con le sue luci; ci siamo noi, che riflessi negli specchi del caffè degli specchi fingiamo di non sapere che laggiù ci sono tutte quelle ombre perse nella solitudine geometrica dei loro corridoi. Tra tubi innocenti e oblò tristi è qui che si aggirano. Donne violate, vendute, donne vittime della tratta. Slave, balkaniche, africane. Dimenticate. Restano sospese come una parola che sbiadisce col sole; sono le pieghe del giornale accartocciato e lasciato sul davanzale del retro, buono a stento per impacchettare dimenticanze, o per accendere fuochi dentro alla ruggine dei bidoni. Hanno perduto ogni stella polare, queste donne che un tempo sono state madri o bambine, sorelle e spose e poi schiave di carne da usare per buttarle via, alla fine del gioco: carne mezzo spolpata, legata all’osso dai nervi soltanto ma ancora viva, perché capace di sentire il male che le corrode come fosse un verminaio che ci ha fatto dentro il nido. E poi di nuovo e ancora ostinatamente donne, aggrappate alla loro libertà come un utero riempito di rabbia e di malinconia. Eppure sono una costellazione, una nebulosa indistinta che svapora oltre gli orizzonti della nostra “divina” indifferenza.
Melara inghiotte nelle sue gabbie di vetro e cemento quanto rimane delle loro vite. Pezzi difficili da far combaciare, perché hanno i bordi taglienti, e lasciano graffi sulle mani se solo cerchi di raccoglierli. Lo ha fatto, Paolo Youssef, sanguinando ad ogni scatto. Ne sono convinto. E le sue immagini sono per noi la lama affilata di un rasoio, inesorabile come quello che un chien andalou lascia scorrere piano sulla tremula convessità di un’iride che si sfolla. La nostra. Perché non è soltanto un fotografo, Paolo. Ma un narratore come pochi. E ha la capacità di commuoversi e di commuovere ad ogni click, però trattenendo il respiro, per non smarrire la chiarezza del guardare. Ci sono ombre, sagome rovesciate, tende di plastica con i loro sogni di plastica a diventare foglie e farfalle di plastica che non voleranno mai via, lontano da qui. Forse. Tutto il resto è cemento, pesante come un cancro che riempie di calce polmoni e consuma la vita. E piastrelle bianche, lavandini malati e disadorni muri. Volumi pieni di vuoto. Ma soprattutto specchi segnati dall’inchiostro di sangue di rossetti anarchici, che gridano gentilezze al cielo, bellissime, e vetri la cui polvere riesce a rendere timido e freddo perfino il sole. Scorrono le immagini in bianco e nero come i frame di un vecchio film, risucchiati dentro un proiettore in super8. Ne senti quasi il suono, la ventola di raffreddamento a sovrapporsi sul ritmico e concitato ticchettio degli ingranaggi. Poi ti accorgi che quello è soltanto il suono del fastidioso ronzio che producono i nostri pensieri quando entrano in cortocircuito con le nostre ipocrisie. Sai che prima o poi la pellicola si brucerà in una dilatata smorfia – quella che più ci rassomiglia perché combacia fin troppo bene con gli sbadigli della nostra noncuranza – deformando le immagini nella voragine di un buco. Perché è questo che in fondo vogliamo, involgariti da una presunzione tutta borghese che ci convince di essere estranei, noi, ad una verità così desolante. Ma intanto sono lì, le immagini, e scorrono, proiettando la loro lancinante poesia sulle pareti del nostro stomaco. E raccontano non una, ma mille vite. Quella di Kamala o di Janina, o forse quella di Fatma, o di Shimul.
Pia Covre, segretaria generale del Comitato per i Diritti Civili delle Prostitute, racconta qui il vero progetto sociale denominato Stella Polare, che ha l’obiettivo di aiutare le donne che chiedono di uscire da situazioni di grave sfruttamento, anche sessuale:
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