IL LEONE ALATO A SEI ZAMPE
Da sempre la magnificenza produce meraviglia e stupore e da sempre Venezia riempie gli occhi della propria magnificenza. La meraviglia è quella di Goethe che nel 1786 arriva a Venezia, ancora Serenissima, dieci anni prima che Napoleone la venda agli Asburgo, decretando così la fine della millenaria Repubblica. Goethe, dopo essere salito in cima a un campanile sancisce la magnificenza di Venezia, un cristallo di perfezione dell’ingegno umano. Cinquanta anni dopo Campoformido, nel 1851, lo stupore è quello di John Ruskin che arrivato in laguna evita l’altezza dei campanili e si immerge nel labirintico ventre di Venezia lasciandosi vincere da un indicibile smarrimento dei sensi. Il lungo omaggio che rivela il suo stupore, The Stones of Venice, impreziosisce il mito di Venezia, o meglio il suo antimito, e individua in quelle pietre millenarie, le origini di una sensibilità tutta moderna.

Da quel momento, dopo lo scacco in cui Venezia è incorsa rovinosamente (la caduta della Repubblica), l’apprezzamento nei confronti delle diverse sfere dell’agire umano in cui Venezia ha eccelso per tanti secoli diffondendo il mito della Serenissima, si trasforma, ribaltandosi, in una sorta di antimito e offre un’ospitalità sontuosa alle contraddizioni dei principi di dualità e di opposizione dialettica dell’arte romantica. Da una situazione di emblematicità delle glorie dell’agire umano, la realtà veneziana slitta nella dimensione della rappresentazione artistica di questo stesso agire e Venezia diventa il luogo del visibile, dell’apparenza. In soli cinquanta anni, Venezia, da goethiana patria dell’unità di spirito e natura, si trasforma in luogo dell’apparente e del suo rapporto ambiguo con il reale.

Ruskin è sopraffatto da un luogo che riconosce come mitico e votato al doppio in cui le caratteristiche architettoniche diventano elementi di uno spazio visivo. Questo spazio si qualifica e si impone come incerto, Venezia non è mai un aspetto soltanto, è sempre anche il suo doppio o il suo contrario: acqua e terra, architettura e natura, città e laguna, aspetto che rende mutevole e instabile il senso delle sue forme. Le fondamenta poggiano sull’acqua e lo spazio urbano è modellato dalla geografia naturale della laguna.

Le fondamenta (anche nella loro accezione mitologica di origini) acquistano il carattere dell’incertezza che diventa l’ambiguità spaziale di una città di laguna, che non è terraferma e neppure mare. Il segno dell’ambiguità a livello immaginario e percettivo si presenta come illusorio, sempre pronto a rivelare una seconda faccia, uno spazio aperto al limite con l’incerto: l’interno è sempre anche esterno; la trasparenza, velatura; la terra, acqua; l’architettura, elemento naturale, il tutto in un’ambiguità di labirinti.

La Venezia di Ruskin offre allo stupore della modernità una scena perfetta dove la superficie affonda le proprie radici nella profondità, l’apparenza della scena non nasconde il mondo, né quella della maschera, il volto. Tutto ciò non produce semplice meraviglia, Disneyland è meraviglia. Lo stupore invece produce una sensazione più profonda, si apre al sentimento della perdita delle proprie facoltà sensibili, percettive, cognitive e di conseguenza allo smarrimento di se stessi. Lo stupore porta sempre con sé un riconoscimento di ciò che stupisce e allo stesso tempo ci prende quando lascia emergere qualcosa sotto una luce diversa mai vista prima, e tutto ciò disorienta fino a inquietare. Non a caso lo stupore si esprime molto spesso nell’ordinario, non ha bisogno della magnificenza.

“Quando si pone al lavoro, l’occhio è sempre antico, ossessionato dal proprio passato e dalle suggestioni, vecchie e nuove, che gli vengono dall’orecchio, dal naso, dalla lingua, dal cuore e dal cervello”, afferma Nelson Goodman e lo stupore della sensibilità di Paolo Youssef che arriva a Venezia restituisce, pur non mostrandolo, il senso di Venezia come millenario luogo del visibile e ci presenta gli esiti e le quinte della scena del leone alato, oggi, a sei zampe (il simbolo della modernità petrolchimica), come discretamente indicato dalle immagini di apertura e chiusura del suo lavoro. VENtrEZIA, non è un’opera né un reportage fotografico, è uno sguardo al lavoro. Anche chi non conoscesse il lavoro di Youssef, risultato di una sensibilità meticcia che abbraccia in modo innovativo fotografia, scienza, poesia in una realtà oggi definita post-mediale, lo intuirebbe comunque subito dall’incipit letterario.

Quella composizione a incastro su tre pagine che precede le immagini, è una vera e propria invenzione che allarga gli orizzonti della letteratura acrostica resa celebre dagli esiti dell’esperienza OuLiPo di Daniel Pennac e Raymond Queneau, fra gli altri. Quella letteratura che si basa sull’intarsio e sull’incastro anche enigmistico e che Youssef sviluppa a un livello a mio avviso inedito, al momento. Neppure le celebri lettere di Aurore Dupin, nom de plume di George Sand, ad Alfred de Musset (leggendole a righe alternate si rivela un sottotesto erotico) raggiungono una tale complessità. Non è un puro esercizio di stile quello di Youssef, è l’intuizione della vera natura del luogo veneziano che richiede una completa immersione nell’esperienza e nell’incontro con l’altro, il ventre della Venezia di Ruskin, come peraltro sempre accade nei suoi lavori.

Un intarsio si diceva, e quale termine migliore si potrebbe usare per definire la natura scenica di Venezia? In una sceneggiatura inedita e mai realizzata ambientata a Venezia, Fellini, grande maestro dello stupore (si pensi al suo Roma, un’altra città alla Ruskin), definiva la laguna vista dall’alto dell’arrivo in aereo, uno viluppo di intarsi naturali dove “la notte trapunta di inatteso”. Nel suo intarsio letterario, Youssef riesce a trapuntare l’esperienza di M., “un’aristotelica via di mezzo fra un turista e un veneziano”, con quella di P., ricercatore “sempre di altre forme” e fuorilegge nel mondo del “dio privatizzato” del profitto.

E’ sorprendente che Youssef parta da un prologo per presentare VENtrEZIA, riproponendo così gli archetipi dell’arrivo a Venezia che da Ruskin in poi ne hanno segnato la storia: l’approdo in laguna, e il fatto che Venezia sia già sempre vista prima di arrivarci. Un arrivare lento, per mare, nell’indistinto insieme di luce, ombra, terra e acqua. Sin dal principio, il perdersi è assicurato. L’arrivo a Venezia in Der Tod in Venedig di Thomas Mann è l’emblema dello stupore novecentesco, nel 1912, solo sessanta anni dopo Ruskin. Youssef, mantenendo una forma duale nel pensare e presentare le proprie immagini, ciascuna sempre in dialogo con un’altra, mostra i moderni approdi alla Venezia di oggi e attraverso questo continuo rispecchiarsi, suggerisce l’idea che questi percorsi rinchiusi e obbligati siano in fin dei conti escludenti e rappresentino le forme della società attuale: gli stranieri dell’industria massificata del mordi e fuggi turistico da una parte e dall’altra, la fila incolonnata del sottoproletariato straniero residente e resiliente; l’industria alberghiera diffusa e la crisi degli alloggi.

In un modo profondamente diverso da un intarsio, Venezia oggi presenta confini, separazioni, reti metalliche, kentucky fried chicken, scenografie commerciali e industriali (leisure e turismo) che non rappresentano più magnificenza ma sono semplici cartonati la cui superficie ha perso le radici con la profondità di un progetto culturale, economico, sociale. Una mistificazione della realtà, dietro la quale si celano le inevitabili scorie.

E’ un luogo apparecchiato e allo stesso tempo meravigliosa rappresentazione dei riti della società di oggi. Youssef, calandosi nel ventre e nella vita, nell’esperienza della laguna, ci impietrisce di fronte alla superficie attuale della città che ha perso i propri legami con la profondità del proprio passato e della propria tradizione. Lo sguardo di VENtrEZIA, lavorando in modo forse inconsapevole ma sicuramente antico sul mito, stigmatizza il ridimensionamento di Venezia ai riti di oggi. Il turista e il suo gelato ne sono una rappresentazione plastica, emblematica che lambisce l’oscenità, ovvero quanto di più lontano dalla segreta ed elegante ambiguità di Venezia. Solo nelle maschere dei diseredati incontrati sotto gli accessi odierni alla città, Youssef riesce a restituire pasolinianamente la realtà vissuta in prima persona, fuori dai parametri della modernità e per questo dolente.

Lo spazio mitico del ventre della Venezia di Ruskin diventa oggi in VENtrEZIA un luogo rituale, votato a recuperare rispondenze precise dell’industria globale e digitale di oggi. Da luogo dell’esperienza del perdersi, del labirinto, Venezia diventa oggi il rito principe dell’industria di un turismo fondato sul concetto che la vita e il mondo passino sopra la nostra testa, in modo già completamente organizzato e indipendente dalla nostra consapevolezza. Youssef restituisce attraverso la rappresentazione di questa ritualità, la dimensione mitica di Venezia che oggi nel suo lavoro diventa nuovamente luogo emblematico dell’ambiguità contemporanea.

Penso alla relazione con quello spazio ambiguo e informe che con grande lucidità Luciano Floridi definisce l’odierna dimensione onlife: tutti noi oggi abbiamo delegato alle attività online buona parte della nostra esperienza reale, della nostra vita non più fatta di incontri fisici ed emozionali ma piuttosto di chat a risposte codificate e iconiche già previste da libraries e thesaurus incorporati nelle app. Risposte votate, in ultima analisi, all’ossessione autoreferenziale del compiacimento e della gratificazione. Un indistinto sempre più difficile da definire dove la differenza tra reale e digitale o tra umano e macchina non sono più sostenibili in modo nitido.

Un intero mondo che passa sopra le nostre teste, una vita completamente organizzata e costantemente eterodiretta ma allo stesso tempo perfettamente cucita addosso ai nostri presunti e indotti bisogni/consumi che si autoalimentano delle tracce che lasciamo nel web. Le vie blindate di accesso a Venezia, luogo una volta emblematico del perdersi, del desiderio e dell’altro, restituiscono ad esempio l’immagine plastica delle ricerche customized di Google, blindate sulle nostre personali cronologies, dalle quali non è possibile uscire. Quando anche Venezia diventerà una smart city, a quel punto sarà davvero difficile perdersi nel suo ventre e riconoscere che all’origine di tutto c’è M. e la capacità di P. di incontrarla.
